Il primo episodio del nuovo format su ClubHouse, The Late Night HR Talk, è stato l’occasione per discutere del tema dell’imprenditorialità in azienda assieme a Enrico Ariotti, CEO di nCore e moderatore dell’evento; Layla Pavone, Chief Innovation Officer di Digital Magics; Roberto Battaglia, Head of HR Corporate & Investment Banking di Intesa San Paolo; Manlio Ciralli, CEO di PHYD; Michele Zanini, Managing Director di Management Lab.
Vogliamo provare qui a rielaborare alcuni aspetti di questo tema molto articolato e complesso, partendo dagli spunti emersi durante il talk.
Chiediamoci innanzitutto qual è il profilo dello “startupper in azienda” e riflettiamo su chi, tra i nostri colleghi, può corrispondere più o meno bene a questa etichetta. Lo startupper è un dipendente con capacità imprenditoriali inespresse che non si accontenta dello status quo, a cui a volte le regole possono stare un po’ strette e che è costantemente alla ricerca della propria strada, spesso anche con una buona dose di irrequietezza perché le aziende strutturate raramente sono l’ambiente ideale per favorire l’imprenditorialità.
E qui ci troviamo di fronte ad un incredibile paradosso: le grandi aziende invidiano la creatività e l’agilità delle startup, mentre le startup invidiano i budget e l’organizzazione delle grandi. Ma è davvero impossibile un giusto compromesso fra questi due mondi agli antipodi?
L’evidenza ci dice che anche solo avviare il processo di ricerca di questo compromesso è estremamente difficile, ma questo non vuol dire che sia impossibile. I driver che possono dare la direzione verso la valorizzazione dell’imprenditorialità in azienda sono essenzialmente di tre tipi: culturale, progettuale e tecnologico.
Il driver culturale è l’insieme di diversi fattori che agiscono su un orizzonte temporale di medio lungo termine.
- Lo stile di leadership, vale a dire l’apertura mentale e la lungimiranza del CEO e del management nel non trascurare mai i segnali che il cambiamento è non solo necessario ma anche inevitabile e che gli startupper sono per natura agenti di cambiamento.
Sono loro, infatti, in qualità di “ribelli etici”, ad avere il coraggio di intraprendere quelle strade che non sono state ancora battute da nessuno nonostante l’inevitabile rischio di errore che è connaturato alla sperimentazione nel nuovo.
- La cultura dell’errore, ossia quell’approccio per cui l’azienda incentiva i propri dipendenti a considerare l’errore un’opportunità unica di apprendimento invece che gestirlo con la classica caccia al colpevole e conseguente sanzione.
Si pensi al premio “Best Failed Idea” che Tata e Intuit assegnano tutti gli anni ai propri dipendenti per favorire lo sviluppo di nuove idee.
- La propensione individuale al rischio, che ha una forte componente attitudinale ma che può comunque essere “allenata” in azienda creando spazi protetti di sperimentazione e di apprendimento dall’esperienza diretta.
Esempi concreti di questo approccio possono essere considerati il progetto PHYD all’interno del gruppo Adecco e la politica di Google che autorizza i dipendenti ad impiegare una parte del tempo lavorativo per sviluppare idee proprie (così sono nate Gmail e Hangout).
La crisi del 2020 ha avuto come esternalità positiva una forte e inaspettata accelerazione del cambiamento culturale nel nostro Paese, così forte che sarà necessario un certo periodo di tempo per essere “digerita” e produrre gli effetti attesi, ma di certo il beneficio sarà sensibile.
Il driver progettuale è legato alle iniziative che le aziende possono avviare nel breve e medio termine per mettere a disposizione degli startupper che non vogliono arrendersi un metaforico “territorio di espressione”. Questo può avvenire su due dimensioni:
- cambiare le regole del gioco nel contratto di lavoro, principalmente attraverso il superamento delle tradizionali modalità di coordinamento e controllo basate su gerarchia e regole formali (ad esempio, l’orario di lavoro rigido) in favore di nuove modalità basate su responsabilizzazione delle persone, condivisione profonda del purpose per generare passione e creazione delle condizioni per incentivare la lealtà verso l’organizzazione.
- ridurre la burocrazia rendendo i processi più agili e focalizzati sul risultato finale, slegando il concetto di produttività dalla quantificazione oraria della prestazione in favore della capacità di raggiungere i risultati.
Il driver tecnologico infine può essere ben espresso attraverso il fenomeno della “open innovation” che ha introdotto un concetto di innovazione molto diverso da quello precedente, in cui il processo è totalmente confinato all’interno di una singola azienda, per ampliarlo oltre i confini dell’azienda stessa per aumentare esponenzialmente le opportunità di contaminazione e collaborazione.
Trasportato all’interno della nostra discussione, questo approccio va sotto il nome di “Corporate Entrepreneurship” ed è ben rappresentato dai casi di quelle aziende (come la già citata Adecco nel caso di PYHD o Siram con il suo Siram L@b) che agevolano l’iniziativa dei dipendenti che vogliono creare una startup, anche esterna, supportandoli in questo percorso e mantenendo uno stretto rapporto di collaborazione con la neonata società nell’interesse reciproco.
In conclusione, ma perché è così importante favorire l’imprenditorialità diffusa nelle organizzazioni?
Al livello aziendale, l’imprenditorialità è l’ingrediente fondamentale per abilitare le nuove tecnologie e rendere possibili i processi di innovazione profonda che sono oggi necessari in tutti i settori, non soltanto quelli high-tech.
Al livello di sistema Paese, l’imprenditorialità ha una correlazione positiva forte con la crescita economica e l’occupazione, come spiega l’indagine internazionale GEM – Global Entrepreneurship Monitor che viene svolta periodicamente e che purtroppo non vede l’Italia posizionata al livello degli altri Paesi più avanzati (tra i vari motivi, la netta prevalenza dell’imprenditorialità “per necessità” rispetto all’imprenditorialità “per opportunità”).
Mescolare assieme questi due ingredienti può generare quel circolo virtuoso che riteniamo assolutamente necessario per il ruolo che l’Italia può e deve avere nel panorama economico globale e tutti noi dobbiamo sentirci fautori e protagonisti in prima persona di questo cambiamento possibile.