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Social recruiting: il difficile equilibrio tra vita pubblica e privata

18 Aprile 2024
in HR 4.0
Tempo di lettura: 3 mins di lettura
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La parola d’ordine è “clean up” – “ripulire”. Chi è in cerca di un lavoro, ancor prima di scrivere un cv, dovrebbe rimettere mano ai propri profili social: LinkedIn, ma soprattutto Facebook, Instagram, X, e Tik Tok rischiano di compromettere il percorso di recruiting, facendo sfuggire di mano anche ottime opportunità. Dall’altro, profili ben curati e coerenti con le proprie skills, possono essere particolarmente attrattivi per i recruiter. Andiamo con ordine.  

Il tema del social recruiting è controverso. Una recente ricerca di The Adecco Group, condotta su un campione di circa 500 recruiter, ha evidenziato il ruolo cruciale dei social media nel processo di reclutamento, al punto che il 51% dei recruiter dichiara di essere stato influenzato negativamente durante il processo di selezione dopo aver controllato il profilo social di un candidato. Una tendenza che è notevolmente aumentata negli ultimi 10 anni, quando i social network interessavano appena il 12% degli addetti alla selezione. Soprattutto, ciò che ha inciso in maniera negativa sulle scelte dei professionisti HR sono state alcune foto postate dagli utenti e ritenute inappropriate (37% dei casi), tratti della personalità emersi attraverso i contenuti pubblicati e non ritenuti idonei rispetto alla selezione (27%) e manifestazioni discriminatorie di natura sessuale e/o razziale nelle interazioni (17%).  

Analizzare il profilo social dei candidati dopo aver ricevuto un cv è ormai diventata una prassi: gli intervistati confermano che nel 65% dei casi verificano l’esperienza professionale e per il 47% i contenuti postati. Come noto, per altro, gli algoritmi dei social spesso conducono chi fa ricerca attiva su LinkedIn a visualizzare anche altri contenuti postati su piattaforme diverse. LinkedIn è infatti utilizzato dal 96% dei recruiter, ma se il 67% di loro lo sfrutta per la raccolta delle candidature, il 60% lo usa con lo scopo di ricercare i candidati passivi, cioè quei professionisti che non stanno cercando lavoro attivamente e che non si aspettano di ricevere proposte di lavoro. In questi casi, l’analisi di un profilo social può essere dirimente.  

Perciò, meglio fare attenzione. Una raccomandazione che vale anche al contrario: i candidati, infatti, sono sempre più interessati a cercare online informazioni circa chi si occupa della loro selezione. Dunque, non solo le aziende sono tenute a fare employer branding, ma anche gli stessi recruiter dovrebbero curare la loro immagine social. In entrambi i casi, sono apprezzati profili attivi, che partecipano a discussioni e fanno interventi inerenti al settore di riferimento, che spingono pratiche di networking digitale o che sono aperti a un confronto costruttivo con altri soggetti.  

I social network rappresentano una vetrina davvero potente, dunque. Ma, come anticipato, la dinamica è ambigua: quale grado di separazione tra vita privata e vita pubblica dovremmo considerare accettabile? Se il candidato sceglie di non utilizzare il proprio profilo Instagram come carta di identità della propria vita professionale, potrebbe impostare la modalità “privacy” e di conseguenza chiudere il profilo ai non amici. Ma un profilo chiuso, secondo le nuove regole del social recruiting, potrebbe diventare controproducente ai fini delle selezioni. Non solo: un altro nervo scoperto potrebbe riguardare i bias. Avere accesso al profilo di un papabile candidato e, di conseguenza, scoprire alcuni aspetti personali sensibili come religione, preferenze sessuali e politiche, potrebbe alimentare alcuni pregiudizi impliciti e andare in qualche modo a inficiare il percorso di recruiting. Inoltre, non sempre i profili dicono il vero o espongono tutte le competenze di un candidato. Potrebbero, ad esempio, non essere aggiornati o non essere curati alla perfezione per mancanza di tempo o di effettive capacità nella comunicazione social (soprattutto per chi opera in contesti molto distanti da quelli digitali).  

Il tema diventa chiave anche una volta che il candidato è stato assunto. La reputazione delle aziende, infatti, viaggia online e non è opportuno avere risorse che postano messaggi poco lusinghieri nei confronti della società per cui lavorano. Per questo, diverse aziende stanno introducendo delle policy per i social media che provano a guidare il capitale tra “to do” e “not to do”.  

Dall’altro lato, in un’epoca in cui il nuovo capitale umano – composto soprattutto Millennials e GenZ – chiede alle aziende di creare modelli di lavoro più inclusivi e pronti a supportare un maggior bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa, scoprire fin da subito le carte potrebbe essere un meccanismo win win. Le aziende, trovandosi davanti profili social che raccontano molto della vita privata dei candidati, potrebbero usare queste informazioni in chiave propositiva (e competitiva) offrendo benefici in linea con i valori e i bisogni esposti inconsapevolmente sui social. 

In definitiva, in medio stat virtus, come dicevano i latini. Ma per sicurezza: recruiter e candidati diano un occhio alle proprie bacheche.

 

Contributo a cura di Silvia Pagliuca

Tag: RecruitingTalent Acquisition
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