Nessun paese al mondo ha raggiunto la parità di genere, neanche l’Italia. Nel nostro Paese, lavora appena una donna su due, nella maggior parte dei casi, in ruoli operativi e con una retribuzione inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini, pur a parità di competenze e responsabilità. Sfondare il cosiddetto “soffitto di cristallo” sembra essere una conquista per poche: appena il 28% delle posizioni manageriali è affidata a una donna, per i ruoli da CEO si scende al 3%. Come invertire la tendenza?
Una cosa è chiara: se vogliamo favorire la parità nelle carriere, dovremmo anzitutto garantire parità nell’accesso. Spesso, infatti, le prime discriminazioni si ritrovano già in fase di selezione. Di conseguenza, le donne restano escluse o ingabbiate allo “sticky floor”, il pavimento appiccicoso che limita le occasioni di crescita, costringendo le donne a scelte al ribasso, rinunce forzate e abbandoni silenziosi. Il recruiting diventa, quindi, uno strumento essenziale per ridurre – o, meglio ancora, annullare – il gender gap. Vediamo come.
La rosa dei talenti – Harward Business Review sollecita il personale che si occupa della selezione a definire una “shortlist informale allargata”. Cosa si intende? Per ogni nuova posizione, si identifica un pool di possibili talenti. Solitamente, nella prima cerchia rientrano le persone con cui i/le recruiter sono già entrati/e in contatto e visto che il mondo del lavoro è popolato per larga parte da uomini, è presumibile che la prima rosa informale rispecchi questa tendenza. Ampliare la ricerca consente, invece, di aprirsi a candidate donne altrettanto qualificate, ma solitamente meno visibili. Secondo HBR, in particolare: «Le ricerche su 10 studi con campioni e contesti diversi dimostrano che l’aggiunta di altri candidati può aumentare la diversità di genere della rosa dei talenti e ridurre le probabilità che le donne, seppur qualificate, restino escluse».
Gli obiettivi – Allo stesso modo, potrebbe essere utile identificare degli obiettivi ambiziosi, ma concreti, che consentano all’organizzazione di raggiungere una maggiore diversità. La stessa definizione degli obiettivi può identificare le lacune nei processi e nelle procedure di selezione, portando a introdurre misure correttive. La Certificazione per la parità di genere rappresenta, a tal fine, un utile supporto per monitorare la situazione in azienda e darsi obiettivi di miglioramento.
Più diversità nel recruiting team – Anche diversificare i gruppi di assunzione può essere utile a raggiungere l’obiettivo di una maggiore parità. Avere team di recruiter diversi per genere, esperienze e culture favorisce la diversità nella selezione, superando i pregiudizi inconsci. Come dimostrato da numerose ricerche, infatti, le persone spesso ragionano per bias – pregiudizi, appunto – che vengono assorbiti fin dalla più tenera età. Di conseguenza, è facile costruire aree di comfort rapportandosi con i simili e il genere è uno dei fattori di somiglianza più diffusi.
I bias – Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, quasi il 90% delle persone nutre un pregiudizio nei confronti delle donne, per questo eliminare i bias inconsci è forse la più grande sfida per le organizzazioni moderne. Ma è una missione che richiede il coinvolgimento di una pluralità di attori: scuole, famiglie, Università. È in ognuno di questi ambienti che vengono perpetuati gli stereotipi di genere che sono alla base dell’esclusione delle donne dal lavoro o della segregazione verticale delle carriere. Sarà molto più probabile, infatti, assumere donne per ruoli amministrativi o nelle professioni di cura, mentre solitamente si riservano agli uomini le posizioni in ambito economico o strategico. Eppure, ragionando in questo modo, molti talenti possono essere sprecati, con un danno sia per candidati e candidate che per l’azienda.
L’approccio Skills First – Una delle soluzioni potrebbe essere l’assunzione per competenza. Ovvero: abbandonare le forme più tradizionali di recruiting basate sui CV e sulla formazione scolastica, in favore di test che consentano ai candidati e alle candidate di dimostrare concretamente quali sono le loro abilità. Diversi studi dimostrano che adottando una strategia di assunzione per competenze, molte più donne hanno avuto l’opportunità di farsi notare e di conquistare un nuovo lavoro.
Le tecnologie – Un’altra soluzione potrebbe essere quella di affidarsi alle tecnologie: alcuni sistemi consentono tracciare a livello statistico quante donne e uomini hanno superato ogni step della hiring pipeline, di associare tale dato ai recruiter e di “de-genderizzare” il CV, eliminando ogni riferimento a età, genere o aspetto fisico del talento in questione. Di conseguenza, si abbatte il rischio di minare il processo di assunzione fin dai primi passi a seguito di pregiudizi involontari. Ad esempio, si potrebbe pensare di procedere a una selezione oscurando le caratteristiche di genere per aree che sono solitamente presidiate da molti uomini (pensiamo al campo dell’ingegneria, ad esempio) così da farci guidare non da convinzioni limitanti, ma da dati oggettivi basati sulle skills. Ricordiamo, a questo proposito, un esperimento simbolo: l’introduzione, nelle audizioni della Boston Symphony Orchestra, nella metà del secolo scorso, di uno schermo tra musicisti e commissione giudicatoria. Le donne selezionate aumentarono del 30%, a dimostrazione di come i processi di selezione spesso non siano neutrali.
Il monitoraggio – Ma se la nostra organizzazione volesse colmare il gap di genere, questo modello non potrebbe essere controproducente? È vero, effettuare una selezione senza tenere di conto i requisiti di genere potrebbe presentare delle vulnerabilità, ma in questo caso torna utile quanto suggerito in precedenza: misurare e monitorare la parità di genere, così da muoversi di conseguenza e adottare la metodologia di screening più idonea.
Le interviste – Un ulteriore suggerimento riguarda la standardizzazione delle interviste: usare domande standard per tutti, prive di espressioni stereotipate, elimina le barriere legate al genere ed evita che i colloqui delle donne siano segnati da domande denigratorie legate, ad esempio, allo stato di famiglia o alla maternità. Attenzione anche agli annunci: moltissimi testi delle job description, infatti, sono declinati al maschile, disincentivando, di fatto, le donne a candidarsi.
Per chiudere, una domanda ci sembra essenziale: perché dovremmo volere più donne sul lavoro? Anzitutto, perché è giusto. È una questione di pari opportunità e pari diritti, quindi di etica e sostenibilità, sociale e di governance. Ma vi sono anche motivazioni di business: la diversità di genere promuove la creatività e l’innovazione, rende le aziende più stabili e resilienti, ne migliora l’attrattività finanziaria (i gender lens investment, ovvero gli investimenti basati su criteri legati alla parità di genere, stanno crescendo notevolmente) e aumenta la produttività. Si stima che le aziende con una leadership paritaria possano vantare fino al 20% di profitti in più rispetto alle aziende meno diversificate. E maggiore benessere per le aziende e per le donne, significa, di conseguenza, maggiore benessere per gli Stati. Secondo l’Istituto Europeo per la Parità di Genere (EIGE), se vi fosse una maggiore occupazione femminile il PIL italiano potrebbe aumentare del 12% entro il 2050.
Come ricorda la neo-Premio Nobel Claudia Goldin, il gender gap è un problema per tutta l’economia, non solo per chi lo subisce. E di certo, non possiamo permetterci di sprecare risorse preziose come quelle dei talenti femminili. La parità di genere è, mai come in questo periodo storico, un fattore determinante per la crescita, la competitività e le performance economiche di uno Stato, delle sue imprese e della sua popolazione. Oltre che una leva straordinaria per promuovere un futuro più inclusivo ed equo.