Il divario tra la domanda e l’offerta di lavoro non è mai stato così ampio. Secondo l’Osservatorio HR Innovation del Politecnico di Milano, il 74% delle organizzazioni in Italia ha una crescente difficoltà ad assumere personale e il 94% delle aziende segnala problemi nel reperimento di risorse qualificate. È un fenomeno che ha molti volti: skills mismatch, ovvero disallineamento delle competenze, ma anche aspirational mismatch, ovvero discordanza tra le aspirazioni del (nuovo) capitale umano e la cultura più tradizionale delle organizzazioni, nonché mancanza di orientamento, che in una fase di cambiamento così dirompente del mercato del lavoro, rischia di lasciare spiazzati moltissimi giovani alla ricerca della loro prima opportunità professionale. Analizziamo in dettaglio.
Alle origini del mismatch
Partiamo dalle competenze: già nel 2012, l’Ocse affermava che l’Italia era il Paese europeo con le competenze dei lavoratori meno allineate rispetto alle esigenze delle imprese. Negli anni, il trend non ha fatto che peggiorare e diversi fattori hanno contribuito a rafforzarlo, a partire dall’avanzata delle nuove tecnologie. Nonostante il futuro del lavoro sia senza dubbio digitale, sono ancora pochi i lavoratori e le lavoratrici a possedere competenze Ict o Stem (in scienze, tecnologie, economia, matematica), ancor meno i profili con una preparazione nel campo dell’intelligenza artificiale o del data management. Oltre il 54% delle aziende IT fatica a trovare i profili giusti, rivela una recente indagine del Politecnico di Milano.
La formazione anti skills gap
Tutto ciò impone una profonda riflessione sulla formazione, sia hard, dunque tecnica, che soft, ovvero legata alle attitudini individuali e relazionali. E il terreno su cui lavorare è duplice: il contesto scolastico, evidentemente distante dalle reali esigenze delle aziende, e le imprese stesse, con attenzione sia ai profili senior, a cui si chiede uno sforzo di rinnovamento delle proprie competenze, sia ai più giovani, che spesso arrivano impreparati al loro primo impiego. Secondo una recente indagine di EY e Unicef, in particolare, il 30% degli studenti in uscita dalle scuole superiori continuerà ad avere difficoltà anche nei prossimi anni nel passare dalla scuola al lavoro e per ridurre il mismatch (sia aspirazionale che di skills) è fondamentale consolidare anzitutto le competenze sociali e quelle emotive che oggi sono le più ricercate dalle imprese.
Investire sull’apprendimento continuo, sostenendo il lavoratore in tutto il percorso di carriera, dunque, è un dovere a cui nessuna realtà può più abdicare. Che ci piaccia o no, siamo entrati nell’epoca della formazione permanente, in cui upskilling e reskilling, ovvero rinnovamento e rafforzamento delle competenze, sono i migliori alleati della carriera, per l’impresa e per il lavoratore stesso. E anche il processo di recruiting, come vedremo più avanti, è chiamato a fare la sua parte.
Superare l’aspirational gap
Forse ancora più delicata è la questione dell’”aspirational gap”: la pandemia da Covid-19 ha dato una scossa profonda al mondo del lavoro, facendo emergere nuovi bisogni. Flessibilità, fiducia, attenzione all’equilibrio tra vita personale e lavorativa, sono valori oggi irrinunciabili per i candidati. Aspirazioni che, se non matchate con le aziende che condividono questo tipo di cultura, rischiano di essere disattese generando scarso coinvolgimento, diffidenza o peggio, indifferenza, con conseguente fallimento del processo di selezione o, in una fase più avanzata, dimissioni.
Secondo un’indagine di Randstad, infatti, l’83% dei lavoratori italiani auspica una flessibilità di orario e il 72% di luogo, ma le aziende la offrono solo, rispettivamente, nel 45% e nel 44% dei casi.
È un tema, questo, molto caro soprattutto alle nuove generazioni. Millennial e Gen Z di tutto il mondo vogliono lavori in cui sentirsi pienamente coinvolti, in cui essere sostenuti con un percorso di crescita e formazione continua (sia personale che professionale), vogliono sentirsi parte di team coesi e inclusivi, autentici e trasparenti e lavorare per un’azienda di cui condividono il purpose. Se un tempo i lavoratori erano disposti a scendere a compromessi nel nome della retribuzione, ora non lo sono più (o almeno, non così tanto). Per ciò, condividere con i collaboratori missioni e obiettivi, creare ambienti non ostili e chiarire fin dal primo momento quali saranno gli step di crescita previsti per il singolo individuo durante il percorso di carriera, diventa fondamentale per provare a riallineare i piani, fin dalla fase di selezione.
La sfida del recruiting
Chi si occupa di recruiting ha un ruolo determinante nel provare a ricucire il mismatch e questa sfida rientra nella più ampia trasformazione culturale, oltre che tecnologiche, a cui sta andando incontro il settore delle HR. Non è più l’epoca del recruiter che si limita a presentare un candidato a un’azienda basandosi su una semplice corrispondenza di titoli. Anzi, sempre di più si chiede a chi si occupa di selezione, di valutare le persone sulla base di competenze e attitudini, provando a comprendere quale profilo può adattarsi meglio all’azienda in questione e viceversa. Alcuni colossi americani come Walmart, General Motors e Delta Air Lines, hanno iniziato già da qualche tempo, ad esempio, ad abbandonare le selezioni basate sui requisiti di laurea per focalizzarsi sulle skills già possedute dai candidati o sulle loro abilità a ottenerle in futuro. Questo approccio, denominato “skills first”, richiede strategie specifiche nel processo di selezione, ad esempio: è possibile prevedere delle killer questions da sottoporre ai candidati per delineare in automatico una graduatoria dei curricula, testando le conoscenze delle nuove risorse, per poi proseguire con un processo di assessment integrato in cui valutare le soft skill e le hard skill.
Non solo: fare match tra domanda e offerta di lavoro, oggi, significa prevedere anche momenti di vero e proprio orientamento, soprattutto con i candidati più giovani. È compito del recruiter conoscere a fondo il candidato, capirne aspettative, bisogni, esperienze pregresse, competenze acquisite e propensione all’apprendimento, per indirizzarlo verso le opportunità professionali più coerenti con i suoi valori e le sue potenzialità. La comunicazione, in questo processo, è centrale e parte già dalla Job description: descrivere una posizione in modo accurato e onesto è il primo passo per evidenziare le competenze necessarie ed evitare di confondere, o peggio, deludere, i candidati. Allo stesso modo, sarà importante aggiornare il candidato in tutto il processo di selezione mantenendo un canale di contatto attivo e personalizzato.
In questa missione, i recruiter possono essere supportati dalle più innovative tecnologie di recruiting automation che attraverso l’intelligenza artificiale possono aiutare a effettuare una valutazione che vada oltre il CV per garantire una conoscenza più approfondita delle competenze e della personalità del candidato. Ad esempio, nCore con la funzionalità dell’AI Matching stila un primo ranking basato sulla compatibilità tra il CV e le competenze di hard skills e soft skills richieste, semplificando così il processo di valutazione.
Ai recruiter, in definitiva, spetta l’onere e l’onore di selezionare, orientando (o riorientando) i bisogni di aziende e candidati. Una missione che farà bene sia agli aspiranti lavoratori che alle stesse imprese. Il costo di una selezione fallita, così come quello delle dimissioni, infatti, è molto alto per le aziende, sia in termini di costi che di tempi che di mancata produttività. Non incontrare il candidato giusto, perché non ci si è dotati di una strategia mirata di recruiting e si è saltata a piè pari la fase di orientamento durante la selezione, significa perdere di competitività e guadagnare, invece, in cattiva reputazione. Difficilmente un candidato frustrato farà buona pubblicità all’azienda. Una posta troppo alta, dunque, per non meritare la giusta attenzione.