Una cosa è certa: c’è un prima e un dopo nel mondo del lavoro contemporaneo. La linea di demarcazione è il lavorare “smart”, dove per “smart” non intendiamo solo il lavorare in un luogo diverso dall’ufficio tradizionale, ma il lavorare in maniera (davvero) intelligente. Cosa che non sempre accade quando si parla di lavoro da remoto. Ma andiamo con ordine.
Fino a qualche anno fa, che il luogo di lavoro coincidesse con il perimetro della sede aziendale era scontato. Così come lo era l’orario di lavoro: otto ore codificate, tendenzialmente dalle 9 alle 18, con circa un’ora di pausa pranzo che scattava nello stesso momento per tutti. Oggi, non è più così. E non lo è non solo perché esistono tecnologie che abilitano un nuovo modo di lavorare, ma soprattutto perché sono emerse nuove consapevolezze. Consapevolezze destinate a restare: al netto di alcune eccezioni, infatti, si può lavorare ovunque e in qualunque momento. Un lavoro smart è, infatti, un lavoro flessibile nelle mobilità di svolgimento purché assolutamente chiaro negli obiettivi da raggiungere. Un lavoro che antepone la responsabilità al controllo. Facile a dirsi, molto più difficile da mettere in pratica, tanto che il dibattito “smart working sì – smart working no” trova spazio non solo in un contesto tradizionalista e composto prevalentemente da PMI come l’Italia, ma anche in realtà votate naturalmente all’innovazione, come gli Stati Uniti.
Il contesto globale – Sembra paradossale, eppure, sono numerosi i colossi del tech americano ad aver fatto retromarcia sullo smart working. Tra i casi che hanno fatto più scalpore, ci sono Google e Amazon ma anche la piattaforma di videocall Zoom, che proprio con i suoi servizi ha abilitato uno spazio di lavoro senza confini. Per tutte queste realtà la motivazione è la stessa, anche se raccontata con sfumature diverse: le persone devono tornare in ufficio per essere più creative, più collaborative e più produttive. C’è addirittura chi come Sam Altman (recentemente rientrato in OpenAi) ha definito lo smart working uno “dei peggiori errori dell’industria tech degli ultimi tempi”, mentre Elon Musk, ha imposto ai suoi dipendenti almeno 40 ore di lavoro a settimana in sede, minacciando di licenziare chi si volesse opporre. Di contro, ci sono anche realtà che sullo smart working non solo hanno continuato a insistere, ma hanno proposto anche nuove modalità, come il “lavoro in qualsiasi momento”. I dipendenti di Slack, ad esempio, hanno proposto di scommettere sulla flessibilità temporale più che spaziale, per liberarsi definitivamente dal modello 9-18. Sarà forse questa la nuova frontiera?
La situazione in Italia – Regolato dalla legge n.81/2017, lo smart working in Italia è inteso come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che non prevede precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. La stessa legge aggiunge che “la lavoratrice o il lavoratore che richiede di fruire del lavoro agile non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro”. Eppure, la narrazione comune vede sempre più spesso accomunare lo smart working a una scarsa attitudine al lavoro. Generalizzazioni che ben poco hanno a che vedere con quella che è a tutti gli effetti una trasformazione profondissima del lavoro, che impatta in primis con la cultura di un’azienda, e solo a seguire con il suo modello organizzativo.
Vediamo qualche dato: secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano, dopo i picchi della pandemia e una graduale riduzione negli ultimi due anni, nel 2023 i lavoratori da remoto in Italia sono stati 3 milioni e mezzo, in leggera crescita rispetto al 2022, ma ben il 541% in più rispetto al pre-Covid. Sono cresciuti in particolare nelle grandi imprese, mentre sono diminuiti nelle microimprese e nelle Pubbliche Amministrazioni. Nel 2024 si stima cresceranno ancora, superando i 3,65 milioni. Non sempre però, chi ha lavorato da remoto l’ha fatto in maniera realmente smart. Molto spesso, infatti, i lavoratori hanno subito forme di tecnostress e overworking. La causa? La cultura del controllo che ancora pervade moltissime realtà.
Il caso nCore – «La condivisione di valori, responsabilità e obiettivi è il pilastro da cui partire per creare un terreno fertile per lo smart working» – commenta Enrico Ariotti, founder di nCore, realtà basata sullo smart working al 95%. Ergo: i collaboratori possono andare in ufficio anche un solo giorno al mese. «Per loro scelta, vengono in ufficio molto più spesso. E lo fanno con piacere, perché non è un’imposizione. Sanno di poter decidere liberamente come gestire il loro tempo, sia privato che professionale, e si regolano di conseguenza. Tutto questo è frutto di una cultura fatta di valori condivisi, processi chiari, obiettivi concreti e tecnologie abilitanti» – continua Ariotti. E aggiunge: «Questa mentalità passa per piccole, grandi, azioni quotidiane e finisce per radicarsi nelle persone che a loro volta se diventano ambassador con i nuovi arrivati».
Il benefici sul turnover – Sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico, inoltre, le aziende che hanno iniziative “mature” di Smart Working sia a livello organizzativo che tecnologico, sia per l’organizzazione degli spazi che per l’innovazione negli stili di leadership, sono più attrattive rispetto ai nuovi talenti. Un esempio clamoroso è quello del colosso Airbnb che dopo aver annunciato che i suoi dipendenti potevano lavorare da casa, dall’ufficio o addirittura da altre parti del mondo, ha ricevuto oltre 800.000 visite alla pagina “Carriere” dell’azienda.
«Anche noi, in nCore, abbiamo in programma di assumere 30 nuove persone nei prossimi mesi e siamo consapevoli di quanto lo smart working possa essere attrattivo. Già oggi – spiega Ariotti – molte delle nostre persone sono internazionali: spagnole, russe, francesi, solo per citare alcune nazionalità. Parliamo di talenti molto appetibili sul mercato che con questo modello organizzativo possono conciliare lavoro e vita privata e che se scelgono di rimanere con noi è perché condividono appieno questa filosofia». Non solo un vantaggio nell’attraction, dunque, ma anche maggiore coinvolgimento e fidelizzazione delle risorse.
Due benefici di cui oggi nessuna azienda può fare a meno.